Si torna a parlare di “debunking” e della sua utilità dopo lo studio pubblicato su PLOS One dal titolo “Debunking in a world of tribes“. Risulta naturale riscontrare in coloro che non apprezzano il nostro operato una certa soddisfazione nel sentire e ritenere di poter dire che “il debunking non serve ed è dannoso“, ma se avessero letto almeno le dichiarazioni della prima firmataria Fabiana Zollo (non per forza lo studio e soprattutto le sue conclusioni, ma almeno le sue semplici spiegazioni) sarebbe stato meglio.
“La diffusione della disinformazione è dovuta alla polarizzazione degli utenti, ma anche alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni e all’incapacità di capire in modo corretto le informazioni – aggiunge Fabiana Zollo -. Questi aspetti sommati al meccanismo delle casse di risonanza e alla ricerca di conferme delle proprie tesi minano l’efficacia del debunking. Il debunking e l’attacco frontale ai complottisti non sono antidoti al propagarsi di fake news. Piuttosto, l’uso di un approccio più aperto e morbido, che promuova una cultura dell’umiltà con l’obiettivo di abbattere i muri e le barriere tra le tribù della rete, rappresenterebbe un primo passo per contrastare la diffusione della disinformazione e la sua persistenza online”.
E ancora:
Il primo passo per un debunking che funziona è abbassare i toni, per appianare appunto questa polarizzazione così evidente fra chi si informa solamente da fonti scientifiche e chi tramite fonti non scientifiche.
Questa discussione l’avevamo già trattata in passato, non ci è nuova. Ecco quanto abbiamo rilasciato a La Stampa nel 2016 e riportato nell’articolo dal titolo “Smascherare le bufale online non è inutile, ecco perché secondo i debunker italiani“:
Quindi la ricerca secondo cui sburgiardare le bufale non serve è tutta da da buttare? Al contrario: è un utile spunto di riflessione. Per Attivissimo è soprattutto «un buon campanello d’allarme per i debunker aggressivi, perché dimostra, dati alla mano, che il loro metodo non funziona. I battibecchi sarcastici e polemici sui social sono inefficaci: su questo sono perfettamente d’accordo con lo studio». Questione (anche) di metodo, quindi. «Alcuni debunkers – ammette Puente – sbagliano approccio: i complottisti in fondo sono vittime di una cattiva informazione o di veri e propri raggiri. Finché la discussione non si chiude con un “sei pagato dai poteri forti” e finché si mantiene una certa pacatezza c’è ancora una possibilità». A volte l’errore sta a monte, in chi scrive senza preoccuparsi di farsi capire dai non addetti ai lavori. «Se si vuole raggiungere quella parte di pubblico che rischia più facilmente di lasciarsi ingannare dalle bufale – puntualizza Coltelli – bisogna spiegare le cose senza paroloni». L’admin di Butacit ricorda i dati Ocse che segnalano l’alto tasso di analfabetismo funzionale nel nostro Paese: «Quasi un italiano su due non è in grado di seguire un breve testo, di capire un contratto, di apprezzare un editoriale. Occorre ridurre questo gap: fare e insegnare il debunking può dare una mano».
Che vi sia un problema di polarizzazione è evidente e per niente nuovo. Lo vedo da anni in un certo tipo di utenti che credono a “complotti” e “cure alternative“, ma l’ho visto anche “dall’altra parte“. Alcune persone che si reputano “razionali” e particolarmente attente contro i “bufalari” cascano nella trappola del “al lupo al lupo” senza rendersene conto. Non avete idea di quante volte mi ritrovo a rimproverare qualche mio conoscente perché urla “bufala” di fronte a una notizia che non lo è, ma per loro bastava e avanzava il fatto che fosse stato pubblicata in un “sito con bufale” (come riporta qualche tool online impreciso e polarizzante o perché presente in liste approssimative e mal curate che non troverete nel mio blog). È capitato anche a qualche “debunker“, il quale ha reagito con toni sgradevoli quando gli riportai l’errore senza averlo nemmeno attaccato (lo avevo addirittura difeso).
Seguo numerosi gruppi Facebook e noto il comportamento degli utenti. Non mancano i gruppi “Pro Scienza” composti da utenti “razionali” che ogni tanto si accusano a vicenda di “complottismo” e “analfabetismo funzionale” solo dopo un paio di commenti in cui non sono riusciti a comprendersi o il tema da loro trattato li ha confusi perché poco chiari o mal riportati.
Il problema del capire in modo corretto le informazioni non è una novità. Non dimentico gli utenti che mi seguono e condividono un mio articolo urlando ad altri “ecco vedi, è una bufala” mentre il contenuto riporta l’esatto contrario. Non dimentico gli utenti che condividono i miei articoli pensando che fossero utili alle tesi, ma che invece dicevano il contrario di ciò che volevano “confermare“. Non mancano gli amministratori di pagine o gruppi di debunking che definiscono “analfabeti funzionali” gli utenti con i quali non riescono a dialogare (scrivendolo nei commenti per poi “bannarli” senza una minima spiegazione).
Per quanto riguarda l’approccio aperto e morbido, per anni la mia comunicazione è stata pacata e cordiale durante le discussioni, dove ho cercato di spiegare nella maniera più chiara possibile a certi utenti senza cadere nella maleducazione. Tra i miei conoscenti c’è chi mi domanda come riesca ad essere paziente con certe persone, vi assicuro che è molto difficile in certi casi. Tuttavia ribadisco, come ho detto nel 2016, che coloro che credono nelle bufale e/o nel complottismo sono vittime di una cattiva informazione. L’avevo detto anche durante l’audizione del 27 giugno 2017 durante la Commissione Internet alla Camera dei Deputati: nel corso degli anni si è sviluppata una mancanza di fiducia nelle istituzioni e nel mondo dell’informazione (entrambi colpevoli nelle loro file di aver riportato informazioni scorrette al pubblico) alimentando di fatto la crescita di un fenomeno dannoso per la società.
Purtroppo questo approccio aperto e morbido ha un limite (che qualche sognatore non vuole ammettere), soprattutto se mi ritrovo di fronte ad un interlocutore estremamente polarizzato che non vuole sentir ragioni, sostenendo convinto di voler “dialogare” mentre piuttosto cerca di sfogarsi contro ciò e chi contesta (smentisce) le sue idee. Quante volte di fronte ad una bufala evidente l’utente che l’ha condivisa ammette l’errore? Ce ne sono, per carità, ma quando online ti ritrovi di fronte quello che risponde “non mi importa che sia una notizia falsa, questi non meritano rispetto” o sostengono che sia “pagato dalla Casta” posso anche dare tutto me stesso per discutere con tutta l’educazione e la pazienza che mi ritrovo, ma sono consapevole che (facendo un esempio) sarebbe come cercare di convincere il rappresentante di un’istituzione religiosa che la loro divinità non esiste. Tempo perso che preferisco dedicare a chi è spaventato, dubbioso e non è caduto nella polarizzazione.
Se non c’è nulla di nuovo, perché apprezzo il lavoro svolto dagli autori dello studio? Sono consapevole che il debunking non sia la soluzione o l’antidoto contro la diffusione delle fake news, ma piuttosto un argine al fenomeno. Ho già espresso il mio pensiero, riportato sia presso la Camera dei Deputati e in altre sedi, che studi come questi servono, non sono “fuffa” e ci spiegano ciò che abbiamo visto e detto in passato come “blogger” e non come “scienziati“.
Sono curioso di vedere gli sviluppi e i prossimi lavori che svolgeranno gli autori di questo studio soprattutto per migliorare il nostro operato e quello degli altri contro la disinformazione e le fake news. Nel frattempo continuerò a fornire il servizio che presto attraverso il mio blog e i canali social dove opero.
AGGIORNAMENTO
Di seguito la diretta di domenica 30 luglio 2017 con i colleghi: