Di recente ho notato due tweet. Partiamo dal primo, pubblicato il 18 agosto 2017 da Tommy Robinson (fondatore del partito islamofobo “English Defence League“):
Why are the media not showing yesterday’s image of the dead child like they used the child on the beach
Il secondo è quello di Massimo Limonta (Lega Nord):
Un bambino ucciso dal mare..
Un bambino falciato dalla furia islamica.
Indovinate quale foto la sinistra usa per la sua propaganda…
Prima di ricordare che le due foto riguardano due storie completamente diverse e palesemente usate per pura propaganda politica, riporto un terzo tweet pubblicato da Basima Faysal:
“Victim #1: Authorised viewing, published worldwide, front page news.
Victim #2: Reeeee! Cover it up! Don’t let anyone see it!”-Anon
Questo tweet è stato poi condiviso da Marcello Foa, firma de Il Giornale e docente di Comunicazione e Giornalismo:
Il potere strumentale delle immagini. I bimbi morti non sono tutti uguali. Quelli di Barcellona non vanno fatti vedere
In seguito ho notato un articolo pubblicato dallo stesso Foa il 18 agosto dal titolo clickbait “Islam e terrorismo: ecco la foto che smaschera l’ipocrisia dei media“:
E questo perbenismo porta a inaccettabili forme di autocensura. Guardate queste immagini:
Vi ricordano qualcosa? La prima la conoscete tutti. I media non si sono fatti scrupoli nel mostrare l’immagine del piccolo Aylan, perché serviva a giustificare moralmente l’immigrazione, ma la seconda immagine, segnalata su twitter, non diventerà una hit mondiale. La maggior parte del pubblico non la vedrà mai, eppure mostra un altro bambino di tre anni ucciso assieme alla madre dei terroristi islamici sulla Rambla. Viene censurata. Perché se venisse diffusa susciterebbe un’altra ondata emotiva ma nel senso contrario a quello desiderato dal mainstream multiculturale e globalizzante. E’ un’ipocrisia, ma rivelatrice. Così si gestisce l’opinione pubblica.
Sia chiaro: sebbene le cause del terrorismo non possano essere banalizzate e ha ragione chi sostiene che a destabilizzare il Medio Oriente siamo stati noi occidentali, in primis gli americani in Irak, Afghanistan, Libia e Siria, è innegabile che l’immigrazione incontrollata a cui stiamo assistendo da mesi e che riguarda principalmente l’Italia, sia fonte di destabilizzazione sociale, per la mancata integrazione di masse enormi di migranti a cui è impossibile garantire un lavoro e una normale accoglienza, e dunque di fenomeni estremi, come l’aumento della violenza, della criminalità, dell’estremismo religioso e, infine, del terrorismo.
Ecco perché ha ragione chi manifesta gridando “io non ho paura”. Ma quel grido andrebbe accompagnato con l’urlo: “Enough is enough” come dicono gli inglesi. Ovvero l’immigrazione incontrollata, soprattutto quella islamica, non è più accettabile. Ovvero, in italiano, abbiamo sopportato abbastanza.
Ci si pone il problema sul perché non andrebbero fatte vedere le foto del bambino di Barcellona, ma forse bisognerebbe conoscere le linee guida (pubblicate nel 2017) per i Giornalisti e Attentati redatta dall’UNESCO (link PDF):
E’ di quest’anno la pubblicazione dell’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), l’agenzia culturale dell’Onu, di un manuale per giornalisti: “Terrorism and the Media”, 110 pagine su come coprire gli atti di terrorismo. A pagina 44 sono elencati 21 punti chiave. Tra questi: no a immagini sensazionalistiche che spettacolarizzano, verificare le informazioni correggendo immediatamente e con trasparenza eventuali errori, mantenere il senso delle proporzioni, non fare pubblicità ai terroristi, evitare approcci moralistici o ideologici che confondono la realtà, evitare le generalizzazioni, rispettare la dignità delle vittime, non usare linguaggio di odio.
Ecco i punti chiave elencati a pagina 44 del documento (link PDF), dove leggiamo:
– Respect the dignity of victims, and particularly children
– Publish essential images without resorting to sensationalism
– Avoid amalgams and generalisations
– Control and deconstruct hate speech, rumours and conspiracy theories
Qualcuno potrebbe obiettare su uno dei punti, ossia “Don’t use respect for privacy to justify obscuring the truth“, ma questo non giustifica il mancato rispetto dei precedentemente elencati. Purtroppo ci troviamo di fronte da una parte la denuncia di uso strumentale della morte di Aylan, dall’altra la stessa metodologia che sfrutta la morte di un bambino in Spagna per mano dei terroristi per parlare di immigrazione e religione, generalizzando.
Interessante l’analisi riportata da Valigia Blu il mese scorso:
Un tipo di copertura episodica, non approfondita, quasi da repertorio, contribuisce ad aumentare il senso di vulnerabilità dei cittadini: lì fuori c’è il male, imprevedibile, feroce e colpirà ancora.
Ma cosa c’è dietro quel male? Chi sono queste persone che uccidono in modo così spietato? Perché lo fanno? E, cosa più importante, come potrebbero essere fermati tali attacchi? Rispondere a queste domande richiede una copertura quotidiana e non una reazione di volta in volta ai singoli attacchi terroristici.
In un contesto come questo dove i terroristi puntano soprattutto ad azzerare la cosiddetta “zona grigia”– vedi un articolo di inizio 2015 di Dabiq magazine – (dove c’è diversità, tolleranza, comprensione, discussione e dibattito), la posta in gioco si fa ancora più alta: i media devono assumersi la responsabilità di non incentivare, rafforzare stereotipi, visioni semplicistiche o parziali, alimentare pregiudizi, generalizzazioni. L’attenzione all’uso delle parole e delle immagini diventa per questo davvero cruciale.
Afferma Seib: articoli che parlano in modo superficiale di attacchi terroristici in qualche modo legati all’Islam, senza alcun approfondimento hanno portato al risultato che una religione di 1,6 miliardi di persone viene definita dalle azioni di pochi responsabili di stragi come a Manchester o a Baghdad. E questo limite nella comprensione del mondo islamico da parte di quello non-musulmano porta molte persone ad accettare l’equazione Islam=terrorismo.
Il timore che un racconto giornalistico distorto o parziale delle comunità possa avere poi un forte impatto sulla opinione pubblica è confermato da diversi studi, come la ricerca di Meighan Stone (Entrepreneurship Fellow allo Shorenstein Center on media, politics and public policy della Harvard Kennedy School ed ex presidente del Malala Fund) che mostra come la copertura televisiva contribuisca a un’opinione pubblica negativa verso i musulmani.
Sarebbe utile leggere anche questa parte cercando di fare luce sulla situazione del giornalismo italiano:
Analizzando i notiziari di tre fra i principali canali TV americani – CBS, Fox e NBC – Stone ha trovato che, durante i due anni 2015-2017 presi in analisi, non c’è stato un solo mese in cui storie positive di musulmani abbiano prevalso sulle storie negative. Guerra e terrorismo sono stati i principali focus delle notizie, con ISIS a fare da protagonista per il 75% del tempo, mentre storie di vita vissuta o quelle che raccontano i musulmani come membri produttivi della società, sono state nettamente trascurate. Questo ha un impatto su cosa gli americani pensano dei musulmani, rendendoli sospettosi nei lori confronti. L’organizzazione Gallup definisce l’islamofobia come una paura esagerata, un odio e una ostilità verso l’Islam e i musulmani che è perpetuata da stereotipi negativi che portano al pregiudizio, alla discriminazione e alla marginalizzazione e all’esclusione dalla vita politica, sociale e civile.
I media – sottolinea Stone – sono criticabili più in quello che non fanno rispetto a quello che fanno. Non possono certo essere accusati di coprire le breaking news, che seguono attacchi terroristici e i conflitti in Medio Oriente. E non c’è dubbio che gli americani devono sapere delle violenze perpetrate da Daesh, Boko Haram e altri gruppi terroristici. Quello che i giornali sottovalutano sono gli sviluppi positivi nella comunità musulmana e gli sforzi che questa comunità fa per crearsi uno spazio in America, che comprende combattere quelli che nelle loro comunità hanno ideologie estremiste che non riflettono i loro valori o la loro fede. A dicembre 2015, ad esempio, attivisti musulmani hanno tenuto una marcia pubblica contro ISIS e il terrorismo. Gli organizzatori della marcia hanno così riassunto la copertura mediatica ricevuta: “silenzio”.
Sarebbe interessante far notare con forza che la comunità musulmana è scesa in piazza a Barcellona per condannare l’atto terroristico e i terroristi, così come sarebbe interessante raccontare sempre con forza che la comunità musulmana del Regno Unito (MCB) si è rifiutata di eseguire le preghiere tradizionali nei confronti dei terroristi, un rituale normalmente eseguito per ogni musulmano indipendentemente dalle loro azioni.
Difficilmente leggeremo in certe testate giornalistiche (come quella dove scrive Foa) un articolo del tipo “Quello che i media non vi raccontano sui musulmani” spiegando ciò che è riportato qui sopra perché arriverebbero a commentare tanti polarizzati ormai convinti da certe pratiche (che potrebbero smettere di leggerli, perdendo visite e click).
Polarizzati islamofobi e alimentatori di disagio/odio sociale in 3…2…1…
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